Una delle sorprese della fotografia è nella semplictà tecnica della sua pratica e nella potenza dello sguardo che è dietro alla macchina fotografica. La camera alla fine è poco o niente, lo sguardo è quasi tutto. Capita così che, a differenza di altre arti più complesse nella realizzazione (cinema incluso), la fotografia prometta e permetta continue sorprese e scoperte di sguardi.
Da poco ho incontrato lo sguardo di Judith Joy Ross. A volte, bastano due foto e un commento per aprire una visione del mondo e incontrare un/a fotografa/a. Due foto come queste:

Michelle Fraser, Protesting the U.S. War in Iraq,
Bethlehem, Pennsylvania,
from the series Protest the War, 2006
(SF MOMA)
Questa foto da sola potrebbe passare inosservata nei miliardi di scatti che girano intorno a noi. Sembra un tipico ritratto, mezzo-busto frontale, figura a fuoco, sfondo sfuocato, come nella ricetta dei ritratti dei telefonini. Poi guardo lo sguardo di Michelle Fraser, fotografata da Judith Joy Ross a una manifestazione di protesta contro la guerra in Iraq, e mi accorgo che in questo sguardo c’è qualcosa di misterioso, intrigante, inusuale. Non saprei come tradurre questa differenza se non notando che di solito il personaggio di un ritratto si offre, si presta, allo sguardo voyeristico del fotografo (e del nostro sguardo che guarda la fotografia). Qui invece Il ritratto, (questo come altri molto spesso di donne), invece di lasciarsi guardare guarda, guarda il fotografo e guarda noi. Invece di essere l’oggetto è il soggetto della foto. Non c’è nessuna passività in quel volto ma una forza attiva, sfidante. Basta guardare un’altro ritratto di Judith Joy Ross, fatto 20 anni prima, sempre in Pennsylvania e si vede subito che c’è una connessione. E’ la storia di un modo di guardare al mondo, agli altri che lega le due immagini.
Judith Joy Ross, Eurana Park, Weatherly, Pennsylvania, 1985, 24,45 × 19,37 cm, © Judith Joy Ross, courtesy Galerie Thomas Zander, Cologne
Judith Joy Ross – Photographies 1978-2015